di Raffaele La Capria
S’intitola A proposito di Cechov il libro che Ivan Bunin, lo scrittore russo premio Nobel del 1933 ha dedicato al suo grande amico Anton Cechov. Torna Cechov, torna in tanti modi. Torna perché è la nostra epoca che lo chiama, che ha bisogno di lui, che si riconosce nei suoi racconti fatti di frammenti di vita casuale ed imprevedibile, di vita normale come la vita di ognuno, come quella che ognuno di noi ha potuto sperimentare, che in lui diventa il risultato di un’arte perfetta. Torna Cechov anche in questo libro di Ivan Bunin pubblicato recentemente da Adelphi (pp. 223, e 14) , un libro particolare fatto di una serie di citazioni, aneddoti e ricordi, in cui pare quasi che Bunin voglia far rivivere l’amico e il maestro rievocandone i modi e le parole, i sorrisi e gli sguardi. Dunque un libro fatto di appunti, appena cominciato e non finito, una serie di frammenti ancora confusamente accumulati, ma vividi, che dovevano appunto servire a scrivere il libro che Bunin aveva in mente.
In un suo racconto Cechov scrive che esistono talenti letterari, drammatici, artistici, ma egli preferisce un particolare talento, il talento umano. Ed è proprio al talento umano di Cechov che Bunin avrebbe voluto dedicare il libro che si proponeva di scrivere. Mi ricordo che anche Goffredo Parise mi diceva che lui più che al talento letterario dava la preferenza al talento umano, e che cosa sia poi questo talento umano non è facile dire, ma certo esso nasce da una grande comprensione della sofferenza dell’altro, una comprensione fatta di pietà e immedesimazione, che ha un carattere conoscitivo. Io credo che un’epoca ideologica come la nostra, dove domina il pensiero astratto, senta il bisogno di correggersi attraverso l’uso del senso comune, quello che Montaigne ha espresso nei suoi saggi e che mirabilmente Cechov fa vivere nei suoi racconti.
Sempre in un tono bonario e affollato di ricordi istantanei Ivan Bunin cerca di dire quella «cosa indicibile» che era Cechov, l’anima e l’arte sua non solo, ma la persona fisica, il suo volto: «un viso giallastro che, appena quarantenne, lo rendeva simile a un anziano mongolo», descrizione che a me è sembrata contrastante con le immagini che i vari ritratti di Cechov ci danno. Ma forse Bunin voleva sottolineare un tratto arcaico che apparteneva all’origine della famiglia di Cechov. «I familiari hanno sempre guardato con sufficienza alle opere della mia penna», scriveva Cechov. E ancora Bunin dice che era piuttosto alto, molto snello e agile, elegante, dice che amava ridere, ed era capace di dire cose divertentissime senza fare una piega, e che con il suo umorismo suscitava risate irrefrenabili. Dunque non aveva l’aria così malinconica come dice in un altro punto.
Anche i ricordi di Bunin sono pieni di contraddizioni, perché l’inafferrabile Cechov era anche lui contraddittorio, e non facile da scoprire dietro la sua riservatezza e la sua apparente freddezza. Ma meglio ne rivelano il carattere i suoi incontri con il grande e venerato Tolstoj. «Prima di incontrarlo era molto agitato, provò diversi paia di pantaloni, e pur celiando arginava a fatica l’emozione. Tolstoj mi spaventa, mi spaventa sul serio, diceva ridendo… Ci volle più o meno un’ora per decidere che cosa indossare… e l’andirivieni nella stanza con pantaloni ogni volta diversi durò a lungo, questi erano troppo stretti, questi altri larghi come il Mar Nero… Poi al ritorno, dopo la visita, diceva divertito: È un portento, sapete, è davvero incredibile, quello che più mi colpisce in lui è il disprezzo per noi scrittori… Ci considera dei bambini. Per lui i nostri racconti, le novelle, i romanzi, sono giochi puerili…».
Tolstoj amava Cechov, lo amava perché ne aveva capito il talento umano, e soprattutto ne amava la bontà e certo apprezzava i suoi racconti, e tuttavia bonariamente, affettuosamente gli diceva: «Lasciate perdere il teatro, non è cosa per voi, non lo sopporto proprio il vostro teatro, Shakespeare scriveva porcherie, ma voi siete addirittura peggio». Dopo l’incontro, scrive Cechov, «quando ho fatto per alzarmi e prendere congedo, mi ha afferrato per un braccio e ha detto: Baciatemi».
In quegli anni le commedie di Cechov trionfavano sui palcoscenici, e tuttavia proprio a proposito dei suoi successi Cechov diceva: «Non so perché, ma ho una paura folle delle nozze, delle felicitazioni, dello champagne da levare sorridendo al vuoto». Non amava essere al centro dell’attenzione, e neppure gli applausi, i complimenti che da ogni parte gli piovevano addosso. Era diventato suo malgrado uno scrittore famoso e ammirato, e questo lo faceva diventare ancora più riservato.
Più volte nel suo libro Bunin accenna alla malattia di Cechov, i viaggi in Crimea dove il clima era più adatto alla sua salute, i frequenti sbocchi di sangue, la consapevolezza di aver pochi anni ancora da vivere, il matrimonio con Olga Knipper, insomma tutta la sua breve tragica esistenza vien fuori da questo libro, fino al momento fatale in cui Bunin viene a sapere che il suo amico più caro è morto. «E fu come se un rasoio gelido mi aprisse il cuore».