Le aziende assumono più di prima a tempo indeterminato, ma il numero degli occupati non sale. Le esportazioni tirano ma la produzione industriale a giugno è calata dell’1,1%, dopo che nel secondo trimestre aveva segnato un +0,4%. Il settore auto va forte mentre le costruzioni non si riprendono. La domanda interna langue, con le vendite al dettaglio e l’inflazione prossimi allo zero. La fiducia delle imprese migliora appena, ma quella dei consumatori scende. Sono i segnali contraddittori di un’economia, quella italiana, che sta passando dalla più grave crisi del Dopoguerra a una ripresina in un contesto favorevole — bassi tassi, prezzo del petrolio ai minimi e svalutazione dell’euro — che però il nostro Paese non coglie appieno. Perché, in questi anni, non è cambiato. L’Italia esce con fatica dalla recessione poiché l’ha attraversata in condizioni che erano già deboli prima del 2007. E da allora solo in parte ha ristrutturato la sua economia. Alcune imprese al margine hanno chiuso, ma molte altre galleggiano grazie alla cassa integrazione. Sono emerse eccellenze, che si sono conquistate nicchie di mercato puntando su qualità e made in Italy. Ma le aziende, nella media, non hanno saputo crescere per dimensioni, capacità di investimento e innovazione. E così la seconda manifattura d’Europa dopo la Germania perde continuamente terreno sulla produttività. Nel periodo 2010-2014 la quota degli investimenti delle imprese rispetto al prodotto interno lordo è scesa di tre punti percentuali mentre in Germania è aumentata di un punto. Nello stesso periodo il Pil per occupato è calato in Italia di 2,5 punti mentre in Germania è cresciuto di quasi altrettanto. La forbice si è allargata, come quella tra Nord e Sud, altro fattore di debolezza irrisolto. Che cosa hanno fatto gli ultimi governi? Si sono concentrati sui conti pubblici, per evitare che l’Italia, con un debito pubblico passato dal 103% del Pil nel 2007 al 132% nel 2014, finisse commissariata come la Grecia. La pressione fiscale, nello stesso periodo, è salita dal 41,5% al 43,4% del Pil mentre le spese pubbliche in conto capitale (investimenti) sono passate da 72,8 a 58,7 miliardi. L’economia ne ha risentito. I governi sono anche intervenuti sul fattore lavoro, liberalizzando i contratti, eliminando l’articolo 18 e tagliando l’Irap e i contributi. Ma rispetto al picco raggiunto ad aprile 2008 con 23,2 milioni di occupati oggi ce ne sono 1,1 milioni in meno. Stanno aumentando, è vero, le assunzioni a tempo indeterminato col nuovo contratto a tutele crescenti (non gravato dall’articolo 18 sui licenziamenti). Tanto che rappresentano ormai più del 40% del totale. Ma a caro prezzo, visto che solo quest’anno per lo Stato la decontribuzione costerà 1,9 miliardi di euro (ma, a consuntivo, forse di più) e quasi altri 10 miliardi fino al 2019. E questo senza contare una proroga probabile. Infine, l’esecutivo Renzi ha provato a spingere i consumi, mettendo 80 euro al mese nelle buste paga di 10 milioni di lavoratori. Ma i risultati sulla domanda interna sono stati deludenti. Molte famiglie hanno ricostituito i risparmi intaccati nella crisi. Forse per l’aumento dei consumi bisogna aspettare. Come per l’occupazione, dove le imprese stanno intanto richiamando i dipendenti dalla cassa integrazione. Nel primo trimestre 2015 l’Italia, con una crescita del Pil dello 0,3%, è uscita dalla recessione. Venerdì l’Istat comunicherà il Pil del secondo trimestre. Lo stesso istituto ha stimato a maggio un +0,2%. Altri enti si spingono fino allo 0,3%. L’obiettivo del governo di un +0,7% dovrebbe essere alla portata. Meglio di niente. Ma usciamo dalla recessione in ritardo rispetto ai principali Paesi europei. E cresciamo meno. Come al solito.
Enrico Marro