I giudizi coloriti su Letta, e certe metafore taglienti sulle sue capacità di governo, sono soltanto l’aspetto più provinciale del colloquio tra il sindaco e il generale. Svelano il tratto privato di Renzi, la sua inclinazione alla chiacchiera come strumento di autopromozione nella sfera pubblica. Ma la propensione ciarliera del giovin statista, e le simulazioni complottistiche dei suoi sodali lasciati a Palazzo Vecchio, quali degni interpreti di una Toscana minore raffigurata nelle scene di “amici miei”, non sono la questione centrale della sbobinatura.
Il profilo politico dell’intercettazione è un altro. In una democrazia latina il cui sistema politico è crollato, la conquista del potere passa attraverso ricatti, pressioni, giochi.
Il voto perde ogni valore di investitura. Le urne sono convertite in una ratifica tardiva di spostamenti già maturati nel palazzo. Le rimozioni e gli avvicendamenti al governo sono favoriti dal gioco spregiudicato tessuto dietro le quinte. L’intrigo diventa il terreno prediletto da personaggi ambiziosi ma privi di qualità politica e soprattutto di legittimazione. Il sistema è diventato davvero un congegno autoreferenziale, con maggioranze che si decompongono in aula e con i ritrovati magici di formule variabili che nulla hanno a che vedere con il mandato elettorale originario. E’ saltato il circuito ascendente della legittimazione, quello che collega governanti e governati attraverso il voto competitivo.
E la manovra ambigua è l’arte che decide le carriere di statista in un tempo di politici mediocri e senza ideali che occupano la scena in virtù del potere di interdizione privato che sprigionano e del gradimento dei media assicurato da decisive potenze alleate. Solo in apparenza la scalata al quartier generale è un puro spettacolo di gazebo, di flash e di pubblicità. Accanto alle trovate luccicanti della comunicazione via tweet, esiste un piano nascosto con minacce e alleanze trasversali, un terreno che sta sotto la superficie iconica visibile e su cui è impossibile penetrare. Il profumo acre di occulto accompagna tutta l’ascesa di Renzi al vertice del potere.
Il filo che collega la misteriosa visita ad Arcore del 2010, la mattutina scappatina dell’ancora sindaco fiorentino dalla Merkel sino alla grande messa in scena del patto del Nazareno è la vocazione all’esoterico come strategia per farsi largo nel gradimento nei piani nobili del potere. Quello di Renzi è un potere occulto, nato dalla combinazione di una richiesta di attestati di benemerenza (rilasciati in Europa da governi e uomini d’affari) e di una spregiudicata combutta con il nemico. Le intercettazioni proprio questo svelano: un accordo segreto, una sintonia strategica per smontare l’asse Letta-Napolitano. Il Quirinale, dipinto a lungo come una rediviva fortezza reale, si tramuta in un castello di sabbia venuto giù all’istante. Con l’accordo tra Renzi e Berlusconi, del mitologico «re Giorgio» non rimane che l’ombra e dei corazzieri si è persa ogni traccia.
Le allusioni del leader Pd contro il capo dello Stato, raffigurato come un diavolo dell’antiberlusconismo militante, questo spiegano: il desiderio di Renzi di accreditarsi agli occhi di Berlusconi decaduto per peccati contro il fisco (e all’udito di un generale delle fiamme gialle!) come garante di una svolta radicale, rispetto alla negazione della «agibilità politica» del cavaliere, imputata al capriccio ostinato del Colle. I giovani turchi ed altri esponenti della minoranza del Pd credevano di essere stati rilevanti nella richiesta (suicida) di un “cambio di passo” nel governo Letta, che poi Renzi, in una donchisciottesca riunione della direzione, ha convertito in lascia passare corale per una sua immediata investitura a Palazzo Chigi. In realtà sono stati anche allora giocati dal politico toscano che aveva già concordato mosse, strategie, tempi e scenari direttamente con Berlusconi.
La consuetudine con il Cavaliere, la frequentazione amicale con i suoi colonnelli fiorentini è cruciale nell’ascesa di Renzi al comando. La vera benedizione per la conquista del governo, più che dai gazebo o dalla direzione Pd, proviene da Berlusconi con il quale, al di là delle episodiche scaramucce parlamentari, esiste una sintonia granitica che resiste nel tempo e che non si spiega con la sola logica della politica. Sono in gioco altre dimensioni, che sfuggono al momento. Che la vita pubblica sia del tutto incancrenita, traspare anche dalle parole fuori registro del generale Adinolfi. Che si rivolge al segretario del Pd chiamandolo con rispetto «stronzo» e, cosa ancor più preoccupante, partecipa a considerazioni sul destino del capo dello Stato (suo vertice gerarchico), del presidente del consiglio, dei partiti.
Un tempo erano i generali dell’arma a far risuonare gli umori ribelli delle caserme con il forte rumore di sciabola che si udiva dentro la stanza dei bottoni. Ora sono i generali delle fiamme gialle, e quanti sono depositari di notizie riservati sulle consuetudini fiscali dei potenti, a partecipare a parate occulte e a dispiegamenti di forza con allusioni, interventi, accrediti, annunci. Se il capo dello Stato uscisse, per un momento soltanto, dalla vocazione al silenzio alla quale si è consegnato e pronunciasse, in qualità di capo delle forze armate, qualche parola contro la inquietante politicizzazione degli uomini in divisa, una democrazia stanca e malata come quella italiana ne troverebbe forse un piccolo sollievo. Qui rimane ancora un’utopia il postulato di Gramsci per cui i militari dovrebbero fare politica ma solo nel senso «di difendere la costituzione, cioè la forma legale dello Stato, con le istituzioni connesse».
I giudizi coloriti su Letta, e certe metafore taglienti sulle sue capacità di governo, sono soltanto l’aspetto più provinciale del colloquio tra il sindaco e il generale. Svelano il tratto privato di Renzi, la sua inclinazione alla chiacchiera come strumento di autopromozione nella sfera pubblica. Ma la propensione ciarliera del giovin statista, e le simulazioni complottistiche dei suoi sodali lasciati a Palazzo Vecchio, quali degni interpreti di una Toscana minore raffigurata nelle scene di “amici miei”, non sono la questione centrale della sbobinatura.
Il profilo politico dell’intercettazione è un altro. In una democrazia latina il cui sistema politico è crollato, la conquista del potere passa attraverso ricatti, pressioni, giochi.
Il voto perde ogni valore di investitura. Le urne sono convertite in una ratifica tardiva di spostamenti già maturati nel palazzo. Le rimozioni e gli avvicendamenti al governo sono favoriti dal gioco spregiudicato tessuto dietro le quinte. L’intrigo diventa il terreno prediletto da personaggi ambiziosi ma privi di qualità politica e soprattutto di legittimazione. Il sistema è diventato davvero un congegno autoreferenziale, con maggioranze che si decompongono in aula e con i ritrovati magici di formule variabili che nulla hanno a che vedere con il mandato elettorale originario. E’ saltato il circuito ascendente della legittimazione, quello che collega governanti e governati attraverso il voto competitivo.
E la manovra ambigua è l’arte che decide le carriere di statista in un tempo di politici mediocri e senza ideali che occupano la scena in virtù del potere di interdizione privato che sprigionano e del gradimento dei media assicurato da decisive potenze alleate. Solo in apparenza la scalata al quartier generale è un puro spettacolo di gazebo, di flash e di pubblicità. Accanto alle trovate luccicanti della comunicazione via tweet, esiste un piano nascosto con minacce e alleanze trasversali, un terreno che sta sotto la superficie iconica visibile e su cui è impossibile penetrare. Il profumo acre di occulto accompagna tutta l’ascesa di Renzi al vertice del potere.
Il filo che collega la misteriosa visita ad Arcore del 2010, la mattutina scappatina dell’ancora sindaco fiorentino dalla Merkel sino alla grande messa in scena del patto del Nazareno è la vocazione all’esoterico come strategia per farsi largo nel gradimento nei piani nobili del potere. Quello di Renzi è un potere occulto, nato dalla combinazione di una richiesta di attestati di benemerenza (rilasciati in Europa da governi e uomini d’affari) e di una spregiudicata combutta con il nemico. Le intercettazioni proprio questo svelano: un accordo segreto, una sintonia strategica per smontare l’asse Letta-Napolitano. Il Quirinale, dipinto a lungo come una rediviva fortezza reale, si tramuta in un castello di sabbia venuto giù all’istante. Con l’accordo tra Renzi e Berlusconi, del mitologico «re Giorgio» non rimane che l’ombra e dei corazzieri si è persa ogni traccia.
Le allusioni del leader Pd contro il capo dello Stato, raffigurato come un diavolo dell’antiberlusconismo militante, questo spiegano: il desiderio di Renzi di accreditarsi agli occhi di Berlusconi decaduto per peccati contro il fisco (e all’udito di un generale delle fiamme gialle!) come garante di una svolta radicale, rispetto alla negazione della «agibilità politica» del cavaliere, imputata al capriccio ostinato del Colle. I giovani turchi ed altri esponenti della minoranza del Pd credevano di essere stati rilevanti nella richiesta (suicida) di un “cambio di passo” nel governo Letta, che poi Renzi, in una donchisciottesca riunione della direzione, ha convertito in lascia passare corale per una sua immediata investitura a Palazzo Chigi. In realtà sono stati anche allora giocati dal politico toscano che aveva già concordato mosse, strategie, tempi e scenari direttamente con Berlusconi.
La consuetudine con il Cavaliere, la frequentazione amicale con i suoi colonnelli fiorentini è cruciale nell’ascesa di Renzi al comando. La vera benedizione per la conquista del governo, più che dai gazebo o dalla direzione Pd, proviene da Berlusconi con il quale, al di là delle episodiche scaramucce parlamentari, esiste una sintonia granitica che resiste nel tempo e che non si spiega con la sola logica della politica. Sono in gioco altre dimensioni, che sfuggono al momento. Che la vita pubblica sia del tutto incancrenita, traspare anche dalle parole fuori registro del generale Adinolfi. Che si rivolge al segretario del Pd chiamandolo con rispetto «stronzo» e, cosa ancor più preoccupante, partecipa a considerazioni sul destino del capo dello Stato (suo vertice gerarchico), del presidente del consiglio, dei partiti.
Un tempo erano i generali dell’arma a far risuonare gli umori ribelli delle caserme con il forte rumore di sciabola che si udiva dentro la stanza dei bottoni. Ora sono i generali delle fiamme gialle, e quanti sono depositari di notizie riservati sulle consuetudini fiscali dei potenti, a partecipare a parate occulte e a dispiegamenti di forza con allusioni, interventi, accrediti, annunci. Se il capo dello Stato uscisse, per un momento soltanto, dalla vocazione al silenzio alla quale si è consegnato e pronunciasse, in qualità di capo delle forze armate, qualche parola contro la inquietante politicizzazione degli uomini in divisa, una democrazia stanca e malata come quella italiana ne troverebbe forse un piccolo sollievo. Qui rimane ancora un’utopia il postulato di Gramsci per cui i militari dovrebbero fare politica ma solo nel senso «di difendere la costituzione, cioè la forma legale dello Stato, con le istituzioni connesse».