di Angelo Panebianco
La cosiddetta «austerità», quell’ordine teutonico che secondo i critici più accesi la Germania avrebbe imposto a tutta l’Europa, è fin qui andata incontro a due diverse obiezioni. La prima è quella di tipo greco (almeno fino all’attuale, apparente, rinsavimento di Tsipras) e si sostanzia nella rivendicazione del diritto di espandere ad libitum la spesa pubblica. È il senso, l’unico possibile, delle polemiche contro l’austerità dei vari ammiratori europei (italiani inclusi) dell’attuale governo greco. La seconda obiezione è quella di chi chiede più margini allo scopo di fare politiche pro sviluppo (che significa, prima di tutto, tagliare le tasse là dove sia vigente un regime di tasse alte). È sperabile che sia questo, e non altro, ciò che intende il primo ministro italiano quando, come ha ripetutamente fatto in queste settimane, dichiara la sua insoddisfazione per la politica di austerità. In realtà, non ci sarebbe nemmeno bisogno di chiedere una revisione delle politiche europee per innestare la marcia dello sviluppo se si avesse la forza per ridurre significativamente la spesa pubblica, al fine di ricavarne le risorse necessarie per diminuire la pressione fiscale. Ma poiché quella forza il governo italiano non la possiede (abbiamo visto che fine ha fatto la spending review) non resta che cercare a Bruxelles l’allentamento dei vincoli che è necessario per tagliare le tasse. Renzi è in difficoltà. I segnali di ripresa economica ci sono ma sono ancora troppo timidi. Egli rischia, tra pochi mesi, di concludere il suo secondo anno come capo di governo senza che ci sia stato un serio rilancio economico. Il Jobs act è stato un ottimo provvedimento ma da solo non basta. Possiamo immaginare una specie di «triangolo delle Bermude»: i Paesi che si trovano al suo interno, che non riescono a uscirne, non hanno possibilità di sperimentare un forte sviluppo. Il primo lato del triangolo è costituito da un regime di tasse alte; il secondo lato, da una estesissima area di intermediazione pubblica; il terzo lato, infine, da una cultura anti-impresa che permea l’amministrazione e la giurisdizione. Se così è, agire soltanto sul primo lato del triangolo (abbassare le tasse), ancorché necessario, non è sufficiente per rimettere in moto lo sviluppo. Bisogna anche agire sugli altri due lati, e qui le resistenze, sia politiche che culturali, possono essere fortissime: così forti da far considerare, al confronto, le proteste sindacali per la riforma della scuola come una timida, composta, e solo accennata, manifestazione di dissenso.
Ridurre l’area dell’intermediazione pubblica, abnormemente cresciuta nell’ultimo trentennio, è difficilissimo (e difatti, fino ad ora, non si sono visti segnali significativi che vadano in quella direzione). Ridurre la «presa» dello Stato centrale, nonché dei poteri locali, sull’economia non è soltanto una questione di contrazione della spesa. Implica anche un cambiamento nei meccanismi di regolazione pubblica, significa mettere le mani su un sistema normativo soffocante i cui controlli sulle attività dei cittadini, non soltanto economiche in senso stretto, hanno portato zero vantaggi in termini di lotta alla devianza (ogni giorno nascono nuove inchieste giudiziarie, come e più di prima) ma anche costi economici, palesi e occulti, assai alti. Si noti che se non si agisce su questo versante, se non si riduce la presenza dello Stato nella vita economica e sociale, allora anche ogni eventuale contrazione del peso fiscale non potrà che essere temporanea: presto o tardi, le necessità di finanziamento di un vorace sistema pubblico, centrale e locale, torneranno a imporsi esigendo, di nuovo, più tasse.
Il terzo lato del triangolo riguarda la cultura anti-impresa prevalente nell’amministrazione e nella giurisdizione. Qui le cose sono ancora più difficili: una mentalità anti-impresa e, al fondo, anticapitalistica, si è incistata nel corso degli anni in gangli vitali degli apparati dello Stato ed è difficile contrastarla anche perché essa può contare sul sostegno di parti importanti dell’opinione pubblica. Prendendo lo spunto dal sequestro giudiziario degli impianti di Fincantieri a Monfalcone e ricordando il grande pasticcio dell’Ilva di Taranto, Dario Di Vico ( Corriere , 1° luglio) ha innescato un salutare dibattito, che fortunatamente continua, sui rapporti fra magistratura e impresa. Di Vico ricordava che nei casi di sequestro si manifesta sempre un «asse culturale» tra la magistratura e le anime più radicali del sindacalismo. Per fortuna, il dibattito ha mostrato che ci sono magistrati consapevoli dei danni colossali per l’economia nazionale che certe azioni delle procure (ma anche, possiamo aggiungere, certe sentenze dei Tar) possono comportare. E tuttavia non è facile rimediare. Non è facile fare in modo che i rischi di impresa siano in Italia uguali a quelli che si corrono negli altri Paesi occidentali. Non è facile impedire che, dalla sera alla mattina, azioni di sequestro mandino a gambe all’aria imprese che, senza quell’intervento, continuerebbero a competere con successo nel mercato. Difficile far nascere imprese, e anche attrarre investitori, dove la burocrazia esercita le sue consuete, tradizionali, angherie e dove, soprattutto, la libertà di impresa non è affatto garantita, dove un improvviso provvedimento di sequestro (per via giudiziaria come per via amministrativa) può condurre facilmente al fallimento.
Siamo al centro del triangolo ed è per questo che non possiamo crescere più di tanto. Chiunque riuscisse a trascinarci fuori di lì meriterebbe eterna gratitudine.