di Antonio Polito
I leader europei, tra i quali bisogna comprendere fino a prova contraria anche Alexis Tsipras, si trovano di fronte a quello che Immanuel Kant avrebbe definito un imperativo categorico: salvare la Grecia senza dannare l’Europa. Salvare la Grecia è ciò che hanno chiesto a gran voce gli elettori nel referendum di Atene, una vera e propria irruzione della democrazia diretta nella sofisticata architettura inter- governativa dell’Unione. Ma Merkel e Hollande hanno ragione quando ricordano che la democrazia esiste anche negli altri 18 Paesi dell’euro, e che nessuno di questi può essere costretto ad accettare una soluzione che spazzi via le regole su cui si regge il condominio, così mettendo l’Europa nelle mani di ogni demagogo che volesse agitare la bandiera del ricatto nazionalista.
Stretti in questo paradosso, mai così vicini all’abisso, barcollanti come novelli sonnambuli, i leader dell’Unione sembrano però essersi fermati ieri a un passo dall’irreparabile. Ha cominciato il governo Tsipras, offrendo al resto dell’Europa le dimissioni (o il licenziamento) dell’eroe simbolo della rivolta greca. La notizia che Varoufakis non sarà più al tavolo del negoziato è talmente buona per i fautori di un compromesso che ha perfino rallentato la caduta dei mercati, evitando che si trasformasse in panico (ed è stata accolta con entusiasmo anche dall’agente letterario del ministro-star, il quale ha subito cominciato a far circolare estratti del suo ultimo libro). Alla notizia greca ha fatto seguito il pronunciamento dell’asse franco-tedesco che, pur essendo sempre più tedesco e meno franco, ha adottato la parola d’ordine delle «porte aperte». Considerando che l’ultima volta a sbattere la porta era stato il governo greco, lasciando la trattativa e convocando il referendum, è un passo avanti.
Infine è arrivato il segnale del Fondo Monetario, che si è dichiarato disposto ad «aiutare la Grecia» se gli sarà proposto un piano di rientro; una posizione che sembra fatta apposta per assecondare le pressioni dell’amministrazione Obama, ansiosa di mettere pace tra gli europei e di evitare una nuova turbolenza sull’economia globale. Ma il peggio non è affatto evitato. Il tempo scorre inesorabile. Le scelte del governo greco, seppure sostenute dall’elettorato, comportano che le banche resteranno chiuse per altri due giorni e chissà fino a quando, agli sgoccioli di liquidità. Tra tredici giorni appena scade la rata di 3 miliardi e mezzo che la Grecia deve alla Bce, e se non sarà rimborsata Draghi non potrà più prestare soldi a chi non ha garanzie da offrire. Resta poi intatto l’enorme problema del debito greco: tagliarlo, o anche ristrutturarlo, sarebbe vitale per Tsipras ma potrebbe essere letale per Merkel, che non saprebbe come spiegarlo ai tedeschi (anche loro votano).
In definitiva si è tornati, solo in condizioni un po’ peggiori, allo stallo di una settimana fa, che poi era lo stallo di una settimana prima e di quella prima ancora. La Grecia è stata nella sua storia la patria della razionalità classica, ma anche della tortuosità levantina. Sarà bene che prevalga la prima. L’onere della mossa iniziale tocca al suo governo, che se l’è conquistato con il plebiscito ottenuto da Tsipras. Speriamo che sia una mossa saggia.