Come è potuto accadere che nella Francia di Cartesio, di Voltaire e di Diderot, in quella Francia razionalista e illuminista che si adopera nella catalogazione enciclopedica di tutto il sapere umano, culla della democrazia parlamentare, ossessionata dalle utopie scientiste di Auguste Comte, sia nata e cresciuta, all’indomani dell’Affaire Dreyfus (1894-1906), una generazione di intellettuali avversi alla Ragione con la R maiuscola, all’universalismo, al parlamentarismo, alla democrazia e all’intellettualismo?
Nessun popolo fu mai tanto guerriero, tanto militarista, quanto quello francese; e allo stesso tempo, tra quello stesso popolo è nato il rifiuto più crudo dell’esercito e del militarismo. Tutto, da noi, prende forme estreme, nella vita religiosa e in quella intellettuale, in quella politica e in quella sociale». In Francia «ogni cosa sfocia sempre in antagonismi esplicitamente distinti, in contrasti sanguinosi, violenti, fortissimi.
Edouard Berth
A capitanare questa rivolta contro la Ragione è una generazione che ha preferito all’esprit géometrique di Cartesio, l’esprit de finesse di Pascal, al razionale il soprannaturale, alla logica il mito. Si tratta di pensatori provenienti dai luoghi più disparati della topografia politica: l’anarchico Proudhon, i sindacalisti rivoluzionari Sorel, Berth, Valois, i monarchici del calibro di Barrès, i cattolici Bernanos e Péguy, ma anche filosofi come Bergson. Tra questi Édouard Berth fu l’unico a dedicare un intero saggio alla questione degli intellettuali.
Berth nacque a Jeumont, nel 1875, un paesino situato nel dipartimento Nord della Francia che all’epoca contava poco più di duemila anime. Di estrazione popolare, penultimo di nove figli, frequentò un liceo parigino grazie ad una borsa di studio. Qui lesse i classici greci e latini e si appassionò ai potei parnassiani (Leconte de Lisle, Sully Prudhomme, il primo Verlaine). Alla Sorbona conobbe Georges Sorel, ma dopo l’Affaire Dreyfus, come Péguy, Berth decise di rinunciare agli studi per prendere parte alla lotta politica. Nel 1898 aderì al movimento socialista nei pressi di Lille, dove collaborò con la stampa locale. A partire dal 1899 scrisse i suoi primi saggi, Dialogues socialistes e Les nouveaux aspects du socialisme, in cui abbozzava una terza via socialista lontana sia dall’anarchismo che dal guesdismo. Da lì in poi partecipò attivamente alla vita politica francese assieme a Georges Sorel e a Georges Valois, con cui diede vita ai Cahiers du Cercle Proudhon, un’“alleanza sacra” tra sindacalisti e monarchici contro socialisti riformisti e liberali. Se di Maurras Berth apprezzava le posizioni anti-democratiche, non riuscì mai a sopportarne l’esasperato nazionalismo, e dopo la parentesi comunista, a seguito della Rivoluzione di ottobre, tornò alle posizioni sindacaliste.
Il ruolo degli intellettuali
L’intellettuale nasce in concomitanza con l’anti-intellettualismo. Infatti, nel momento in cui si andava delineando la silhouette dell’intellettuale engagé, quando Zola e gli altri firmatari del Manifeste des intellectuels sostenevano l’innocenza del capitano alsaziano e prendevano coscienza del loro ruolo di evangelizzatori laici, nello stesso tempo, in Francia, si stava costituendo la più grande rivolta contro il ceto nascente dei “capitalisti del sapere”, un ceto che gli anti-intellettualisti consideravano parassitario e improduttivo. «Gli intellettuali non sono – avrà modo di dire Sorel – come si sente dire, gli uomini che pensano: sono coloro che fanno professione di pensare e che prelevano un salario aristocratico in ragione della nobiltà di questa professione».
Tuttavia, vale la pena fare un passo indietro per chiarire il contesto nel quale ci muoviamo. A condannare per primo l’azione corruttrice della cultura fu il ginevrino Jean-Jacques Rousseau, scuotendo i salotti buoni di una Francia abbonata all’Encyclopédie, mentre sosteneva che «le scienze, le lettere e le arti, con minor dispotismo e forse con maggiore autorità, stendono ghirlande di fiori sulle ferree catene di cui gli uomini sono gravati». Ma a studiare “scientificamente” l’ambivalenza della figura e del ruolo dell’intellettuale fu proprio Marx. Secondo il filosofo di Treviri l’intellettuale nasce contemporaneamente alla divisione sociale del lavoro e quindi alla società divisa in classi. La separazione dell’attività intellettuale da quella manuale ha permesso ad una parte della società di ottenere i propri mezzi di sussistenza senza produrli direttamente. «Da questo momento in poi – dice Marx – la coscienza può realmente figurarsi di essere qualche cosa di diverso dalla coscienza della prassi esistente, concepire realmente qualche cosa senza concepire alcunché di reale: da questo momento la coscienza è in grado di emanciparsi dal mondo e di passare a formare la “pura” teoria, teologia, filosofia, morale, ecc». Lo Stato capitalistico moderno è il luogo in cui questa divisione si acuisce fino a rendere le due dimensioni, quella intellettuale e quella manuale, del tutto dissociate, sicché anche l’artigiano, che prima possedeva delle competenze creative e progettuali inerenti alla sua opera, divenuto l’operaio, viene espropriato della sua forza lavoro e spersonalizzato nel processo produttivo, titolare solo di una tecnica e «ridotto spiritualmente e psichicamente alla condizione di una macchina». È in questo contesto che nasce l’intellettuale, quando il sapere diventa una forza produttiva diretta separata dal lavoro, che coordina e gestisce, monopolizzata dallo Stato tramite le sue istituzioni e poi dal Capitale all’interno della fabbrica. Questo sapere-scienza amministrato dagli intellettuali, ha il compito di fornire una legittimità ideologica al potere, e si trova implicato nei rapporti di dominio così come la religione per il tramite dei chierici commemorava e giustificava metafisicamente l’origine divina del potere sovrano del monarca. Lo Stato moderno non ha cambiato il suo rapporto con il popolo per il tramite del suffragio universale – questo «nuovo dio, dice Pareto, non è meglio definito, meno misterioso, meno fuori dalla realtà delle cose di tante altre divinità: né mancano nella sua teologia, come nelle altre, contraddizioni patenti» – ma si serve degli intellettuali per corrispondere le aspettative del popolo con quelle dei ceti egemoni, e per dirla con Brecht, se «il popolo non è d’accordo, bisogna nominare un nuovo popolo».
Antonio Gramsci riprenderà queste tesi nei Quaderni: «Ogni gruppo sociale, nascendo sul terreno originario di una funzione essenziale nel mondo della produzione economica, si crea insieme, organicamente, uno o più ceti di intellettuali che gli danno omogeneità e consapevolezza della propria funzione non solo nel campo economico, ma anche in quello sociale e politico: l’imprenditore capitalistico crea con sé il tecnico dell’industria, lo scienziato dell’economia politica, l’organizzatore di una nuova cultura, di un nuovo diritto, ecc. ecc». Intellettuale è per Gramsci chi possiede una tecnica e la mette al servizio della classe dominante, collaborando così all’omogeneità della società. Gli intellettuali svolgono perciò il ruolo di «commessi del gruppo dominante per l’esercizio delle funzioni subalterne dell’egemonia sociale e del governo politico». Ma con la nascita del capitalismo, l’intellettuale, grazie alla libertà che gli deriva dalla sua indipendenza economica e per via di un risveglio accidentale dalla falsa coscienza borghese, può rinnegare il suo ruolo di difensore dell’ordine costituito e diventare un organizzatore del consenso, un “funzionario dell’egemonia” dei nuovi gruppi sociali. L’intellettuale può scegliere la classe (borghese o proletaria) a cui essere “organico”, con cui militare e di cui esprimere gli interessi.
Ecco che, di fronte a questo intellettuale, sia a quello organico alla classe borghese che a quello organico alla classe proletaria (l’intellettuale socialista), si attaccano in primis Proudhon e Sorel, e poi i loro discepoli summenzionati, tra cui Berth. All’intellettuale borghese si rimprovera di essere il cane da guardia della classe egemone, e a quello socialista di essere un borghese che sfrutta le miserie dei ceti meno abbienti per garantirsi un posto in Parlamento senza avere mire realmente rivoluzionarie: «Il socialismo internazionale è borghese fino al midollo, è la manifestazione suprema della democrazia borghese. Cerchereste invano, nei Congressi socialisti internazionali, qualcosa che faccia pensare alla classe operaia o che addirittura la richiami alla lontana. Una fiera borghese cosmopolita, ecco cos’è effettivamente un Congresso socialista internazionale». Gli intellettuali social-democratici sono i primi nemici dei proudhoniani e dei soreliani, poiché «la social democrazia – come sostiene il polacco Makhaïski, in accordo con le analisi di Berth – è la più grande truffa ai danni del proletariato. È il sotterfugio più maligno della borghesia. […] Prima gli operai si rivoltavano, talvolta, seguendo i loro istinti di classe. Distruggevano fabbriche-caserme, annientavano, guidati dalla loro giusta ira, le macchine che li condannavano alla fame e al lavoro servile; uccidevano i loro vampiri. La borghesia aveva bisogno della polizia, dell’esercito, dei gendarmi per reprimere queste rivolte. Ed ecco che è arrivata la social-democrazia a liberare la borghesia dalla paura di una rivoluzione sociale. A che pro adesso la polizia, l’esercito, i tribunali repressivi? Come gli operai si ribellano contro i loro sfruttatori, i social-democratici li trattengono: “Attenzione alla provocazione”; “Osservate la più grande disciplina”; “La distruzione delle fabbriche e delle macchine, è segno di un’immaturità e di incoscienza di classe”. La borghesia è consapevole che i suoi beni – il suo punto più sensibile – saranno custoditi meglio dai social-democratici che dai gendarmi». Questo ceto parassitario, è il nuovo clero della classe capitalistica: «[…] Vediamo che la difesa della verità, del diritto, della morale diventa un’industria quando cade nelle mani degli ideologi; vediamo apparire in questa classe pensante tutte le tare della classe ecclesiastica contro la quale i professori dei diritti dell’uomo non cessano di declamare per gelosia».
In ogni caso per Sorel come per Berth, l’intellettuale, capitalista o socialista, liberale o comunista, è sempre una diretta emanazione della borghesia, della sua buona o della sua cattiva coscienza. A detta di Berth il lavoro intellettuale è condannato, quando il pensiero gode di un primato sul sentimento, a generare una denigrazione del dato contingente, ad estraniarsi dal divenire e dal mutare delle cose, a costruire delle finzioni in cui incasellare e immobilizzare il reale. L’intellettualismo per Berth è una forma di paresi concettuale e pratica, è l’essere senza il divenire, l’unità contro il pluralismo del vivente, l’impotenza contro il vitalismo, l’effeminatezza contro la virilità. L’intellettuale è il custode di tutti gli anti-valori e la sua ascesa nel panorama politico coincide con la decadenza di tutte le forze vitali: «Queste menti illuminate dimostrano in questo modo che non capiscono nulla all’animo popolare: sono dei decadenti, persone profondamente asociali, che hanno perso nel culto del loro ego e del loro profondo genio ogni senso della società, e di conseguenza ogni comprensione veramente spirituale della vita».
Estratto della prefazione a I crimini degli Intellettuali di Edouard Berth (GOG Edizioni, pp. 250, 1914-2018).