La storia di una grande, decennale insubordinazione di massa nei confronti del dispotismo produttivo di un potere che sembrava invincibile e che invece aveva dovuto piegarsi.
Il giorno prima, il 14 ottobre, gli «altri» – la «zona grigia» della fabbrica, la massa informe radunatasi intorno alle gerarchie d’azienda, capi e quadri intermedi, al grido sordo e subalterno «il lavoro si difende lavorando» – si erano ripresi la città con una marcia di alcune migliaia di manifestanti, dichiarati a mezzogiorno 15.000 nei titoli di Stampa sera, diventati 30.000 in quelli dei radiogiornali del pomeriggio, infine proclamati in 40.000 da Repubblica e tali rimasti nella storia: la «marcia dei quarantamila».
Il giorno dopo, il 16 ottobre, prima ancora che le grandi assemblee tenutesi negli spiazzi delle diverse Sezioni Fiat si fossero concluse, i media dichiareranno l’accordo «approvato» e una grande pietra tombale fu calata sulla vicenda. Personalmente ricordo l’Assemblea del mattino alle Meccaniche di Mirafiori, la grande massa scura sotto gli ombrelli perché, come in ogni crepuscolo di qualcosa, pioveva, il funzionario sindacale incaricato della conta che chiama i contrari all’accordo ad alzare la mano, e se ne alza una selva, poi passa ai favorevoli, poche decine, infine agli astenuti, meno ancora e infine proclama, perentorio «APPROVATO A GRANDE MAGGIORANZA»… Finiva lì la stagione di liberazione di quegli operai. Ma anche la storia di quel Sindacato (il Sindacato in fabbrica, il Sindacato dei Consigli, l’anima della democrazia industriale).
E un intero ciclo politico (la Prima repubblica? La «democrazia sociale» (fondata sul compromesso keynesiano?). Insieme al lungo ciclo socio-produttivo che va sotto il nome di età fordista, con il suo baricentro nella produzione di massa. Allora, a caldo, ci si rese appena conto del fatto che quella che si era consumata non era solo una sconfitta sindacale, di quelle che poi si possono recuperare, era una disfatta che sanzionava appunto «un finire». Se ne resero conto tutti, tranne il ceto politico di sinistra, e il funzionariato sindacale centrale, che lo vissero con un trattenuto senso di compiacimento per essersi tolti di torno i «rompiballe» di Torino.
Ma ora, guardando a quei fatti col distanziamento dei decenni– collocandoli nella lunga durata misurata sulla scala dei mezzosecoli – possiamo ben dire che i «35 giorni della Fiat» sono uno di quegli eventi… non mi piace il termine «epocale», ma periodizzanti di certo sì. Di quelli che dividono il tempo storico in un prima e in un dopo. In essi si rifletteva, e parlava, un contesto generale di frattura col novecento industriale. Pochi mesi prima il Governatore della Federal Reserve, Paul Volker, aveva dichiarato chiuso il ciclo aperto col ’29 e dominato dal terrore della disoccupazione, e aperto quello della lotta all’inflazione e alla rigidità della remunerazione del lavoro. Stava per entrare in vigore lo SME, il «serpente monetario», il che voleva dire che le imprese italiane non avrebbero più potuto godere dei vantaggi delle «svalutazioni competitive».
E d’altra parte i reparti di produzione di Mirafiori si erano già andati riempiendo di robot, segno che l’epoca flessibile dell’elettronica stava soppiantando quella rigida e muscolare della meccanica. Sotto i piedi (e gli occhi, chiusi) di un sindacato tronfio per la rendita di posizione fornitagli dalle lotte di quegli operai, l’erba veniva tagliata a colpi d’innovazione tecnica e organizzativa. In Giappone si produceva già col just in time e con la fabbrica integrata. Lo spirito del tempo stava facendo il suo giro.
Nemmeno i vincitori di allora lo sapevano, neppure i Romiti e gli Agnelli, men che meno gli uomini di Luigi Arisio e dei suoi «quadri», ma anche loro stavano per declinare, come la città che li aveva avuti protagonisti. È cominciato allora il declino della Fiat come “Fabbrica Italiana di Automobili – Torino”. Presto si sarebbe finanziarizzata, per poi evaporare con i successivi accordi internazionali. I marciatori silenziosi, dieci anni dopo o poco più sarebbero stati a loro volta buttati fuori, nel corso del secondo ciclo di ristrutturazione della prima metà degli anni ’90.
Torino avrebbe cessato non solo di essere la one company town che l’aveva resa centrale nel mondo, ma di conservare la propria specificità di metropoli di produzione, diventando una città come le altre (media e mediocre). In crisi, come tutte (o quasi) le altre.
Dunque, non vinse allora né la «Grande Impresa», né il «ceto medio» produttivo. Non vinse neppure un – sia pur asociale e cinico, perché svuotato della «socialità del lavoro» – «mondo della produzione». Non fu la rivincita della «borghesia novecentesca» sul proprio eterno antagonista. Si aprì al contrario la via all’inedito modello sociale, esistenziale, antropologico che va sotto il nome di berlusconismo e che se ebbe nei melmosi anni ’80 la propria gestazione troverà nei ’90 la propria consacrazione, con l’affermarsi di un nuovo ceto edonistico e vaporoso, fatuo e dissipatore (cafonal, si disse), imprevidente quanto impudente. Una neo-borghesia plebeizzata e un ceto medio irriflessivo e decomposto, che prepareranno appunto i disastri di oggi.
Per questo è tanto più importante riproporre – con la forza comunicativa che ebbe a suo tempo il cinema neorealista – le immagini (neoclassiche?) di allora, come sta facendo, proprio in questi giorni, uno dei protagonisti di quegli eventi, Pietro Perotti, con i filmati che realizzò nel cuore di quella lotta. Sono la rappresentazione di «uomini in carne ed ossa» che, destinati per origine alla catena (di montaggio), vissero invece un intenso, anche se breve, periodo di liberazione e per questo rimasero, anche nella sconfitta, per sempre, uomini liberi.