Nell’immenso repertorio iconografico di Caterina da Siena mi ha sempre emozionato la statua lignea che nel 1470 il suo concittadino Neroccio di Bartolomeo Landi scolpì per la chiesa sorta sulla casa del rione di Fontebranda ove essa era nata nel 1347 da Jacopo Benincasa, un tintore di pelli, e da Lapa che era figlia di un artigiano poeta. Era la ventiquattresima (sic!) e penultima figlia di questa coppia molto feconda. Ebbene, impressiona il suo volto, tutt’altro che mitizzato, di bella ragazza toscana con un ovale rotondetto, labbra morbide e occhi mollemente socchiusi. Poi l’arte la trasfigurerà, immergendola nell’ebbrezza dell’estasi, come farà ad esempio il Batoni in un dipinto ovale della Pinacoteca Comunale di Lucca, o come accadrà nella ieratica dolcezza delle “nozze mistiche” con Cristo, tipica del tondo del Beccafumi presente nella romana collezione Doria. Ciò che conosciamo della sua biografia storica e interiore lo dobbiamo a un testo fondamentale, la Legenda maior, a cui lavorò per una decina d’anni – fino al 1385 (la santa era morta il 29 aprile 1380 nella sua casetta romana di via del Papa, naturalmente divenuta poi via di S. Caterina) – il suo ultimo confessore, fra Raimondo da Capua, un personaggio di alta levatura intellettuale e spirituale. Egli era discendente del dantesco Pier delle Vigne e fu eletto, subito dopo la morte di Caterina, Maestro Generale dell’Ordine domenicano, al cui Terzo Ordine, detto delle Mantellate, apparteneva anche la santa. Negli ultimi sei anni della vita di costei egli era stato il testimone della sua avventura non solo mistica ma anche umana e politica. Pensiamo soltanto all’ambasceria di Caterina ad Avignone per convincere Papa Gregorio XI, il francese Pierre Roger de Beaufort, a rientrare nella sede naturale di Roma.
E il prodigio avvenne, nonostante le molteplici resistenze: il 16 settembre 1376 il pontefice partiva con la sua corte per l’Italia e la leggenda volle che a guidarlo – quasi a impedire ripensamenti – fosse proprio Caterina, come si ha nell’affresco senese dell’Ospedale di S. Maria della Scala, dipinto da Benvenuto di Giovanni, artista della fine del Quattrocento, anch’egli cittadino di Siena. La santa sarà protagonista anche nelle complesse vicende successive che riguardavano Firenze e il papato e nel novembre 1378 si stabiliva definitivamente a Roma nei pressi della basilica di S. Maria sopra Minerva. Là aveva sostenuto con la sua opera il nuovo Papa Urbano VI, il primo italiano dopo ben sette pontefici francesi, Bartolomeo del Prignano, già arcivescovo di Bari. Sarà lui a chiamarla a parlare persino a un concistoro di cardinali, appassionandoli con la sua parola ardente e profonda.
Circondata da un’accolta di discepoli, dopo essersi impegnata strenuamente per la riforma della famiglia religiosa domenicana a cui apparteneva, Caterina si spegneva – come si è detto – nel 1380 a soli 33 anni, pronunciando queste parole come estremo testamento: «Tenete per fermo, o dolcissimi figlioli, che partendomi dal corpo io in verità ho consumata e data la vita nella Chiesa e per la Chiesa santa, la qual cosa mi è singolarissima grazia». La vicenda della sua esistenza è stata oggetto di un certo flusso letterario agiografico che ha però il suo apice generativo proprio nella citata Legenda maior che riceve ora una superba edizione critica a cura di una filologa e storica della letteratura domenicana e della mistica femminile, Silvia Nocentini. La sua opera entra nell’alveo dell’«Edizione nazionale dei testi mediolatini d’Italia» creata da quel grande maestro che è stato Claudio Leonardi, scomparso nel 2010. La Legenda è strutturata in chiave “trinitaria”: due parti comprendono dodici capitoli ciascuna, mentre la terza ne annovera solo sei. La sua ampiezza le ha assegnato l’appellativo di maior e persino di prolixa e, anche per questa caratteristica, fu oggetto di numerose abbreviazioni, ma rimase sempre il grande archetipo biografico per conoscere Caterina. Questo avvenne anche perché ben presto il culto della santa si era diffuso a raggiera e la Legenda, annotata successivamente dal segretario di Caterina, il certosino Stefano Maconi, era stata copiata e promossa dallo scriptorium del convento dei Ss. Giovanni e Paolo a Venezia sotto la guida e l’impulso di Tommaso da Siena detto il Caffarini, uno dei più accesi sostenitori della causa cateriniana. Fu così che il testo di Raimondo da Capua registrò un successo impressionante al punto tale che Nocentini è riuscita a enumerare e a collazionare ben 44 manoscritti completi, dispersi nelle biblioteche italiane ed europee – da Augsburg a Vienna, da Bologna a Roma, da Lisbona a Parigi, da Siena a Milano, da Oxford a Toledo e così via – e 9 che riferiscono invece una versione abbreviata della Legenda.
Un’impresa imponente, quella portata a termine dalla studiosa, attestata anche dalla sontuosa introduzione. L’edizione critica permette, così, di avere tra le mani non solo un racconto vivace e incisivo, capace di coinvolgere il lettore moderno, ma anche uno specchio in cui si riflette il volto intimo di Caterina, la sua spiritualità e l’originalità della sua persona in modo tale da generare un vero e proprio canone agiografico. È su questa base che sorgeva il santuario simbolico e la nicchia spirituale al cui interno sarebbe entrata la santa canonizzata, già acclamata tale alla sua morte: «È morta la santa!», gridava infatti la folla che cercava di entrare in S. Maria sopra Minerva dove la salma era esposta. Pio II il 9 giugno 1461 promulgava la bolla della sua canonizzazione, Pio XII nel 1939 la proclamava patrona d’Italia, Paolo VI nel 1970 dottore della Chiesa e Giovanni Paolo II nel 1999 patrona d’Europa. La voce diretta di Caterina risuona idealmente sia nelle 382 lettere a noi pervenute, sia nelle preghiere emesse nei suoi momenti estatici e raccolte da chi le era accanto, sia nel suo testo maggiore, il Dialogo che la santa chiamava semplicemente «il Libro». Fra Raimondo da Capua narra che essa invitava il citato segretario Maconi e i vari discepoli a prendere nota delle sue parole appena l’avessero vista entrare in estasi. È suggestivo che nel Dialogo, un’opera simile a un trattato quadripartito fatto di “petizioni” e di “risposte” il termine dominante sia «misericordia»: siamo, infatti, di fronte a un itinerario di amore dell’anima nell’amore trinitario divino. Come spesso accade, la teologia mistica ricorre al linguaggio e alla simbologia amorosa per descrivere l’esperienza dell’incontro con Dio. E l’effetto è appunto, come ora ripete Papa Francesco, la misericordia per il mondo, per la Chiesa, per i deboli, gli ultimi e i peccatori.